Indaco2 è l’acronimo di? Quanto influiscono le scelte del produttore sull’impatto ambientale delle emissioni di gas serra generate durante il processo produttivo? Ne parliamo con Elena e Riccardo di Indaco.
Quando è nata Indaco e quali sono i valori che hanno ispirato la vostra iniziativa?
Indaco è stata costituita nel gennaio 2013 da un’iniziativa di alcuni ricercatori dell’Università di Siena, allievi della scuola di Enzo Tiezzi, uno dei primi promotori del concetto di sviluppo sostenibile in Italia e nel mondo. Dopo alcuni anni di attività di ricerca universitaria, è emersa la volontà di mettere il nostro know-how scientifico a disposizione delle aziende e operare concretamente per promuovere azioni ispirate a principi di benessere sociale e sostenibilità ambientale e, nello stesso tempo, utili a valorizzare, anche economicamente, le buone pratiche già attuate o potenzialmente attuabili dalle aziende.
Perché secondo voi è importante per un’azienda conoscere il proprio impatto ambientale?
Indaco2 è l’acronimo per “Indicatori Ambientali e CO2”. Attraverso la metodologia LCA, Life Cycle Assessment ovvero l’Analisi del Ciclo di Vita dei prodotti, Indaco aiuta le aziende a conoscere le implicazioni ambientali delle filiere produttive e a migliorarne le performance ambientali, massimizzando efficienza, produttività e risparmio. Inoltre, le informazioni ottenute dagli indicatori, come ad esempio la Carbon Footprint (i.e. emissioni di gas serra in atmosfera generate lungo il ciclo di vita di un prodotto), permettono di arricchire il racconto qualitativo intorno alla sostenibilità di una produzione con un’informazione quantitativa certa. La comunicazione ambientale pertanto può contribuire ad esprimere un valore aggiunto e ad informare il consumatore, orientarne le scelte d’acquisto e diffondere comportamenti consapevoli e responsabili. Del resto, gli indicatori che monitoriamo sono la base conoscitiva indispensabile per ottenere le principali certificazioni ambientali di prodotto come la Carbon Footprint (ISO 14067), la Environmental Product Declaration, EPD, (ISO 14025) o per accedere al programma Impronta Ambientale del Ministero dell’Ambiente.
In quale area produttiva avete cominciato e con quale tipo di aziende?
Nei primi anni con il Gruppo di Ecodinamica dell’Università di Siena e poi adesso con Indaco (che, in qualità di Spin-off accademico, ha tuttora la sua sede nel Dipartimento di Scienze Ambientali), abbiamo affrontato molti settori di attività, dall’agroalimentare alla zootecnia, fino al manifatturiero. Ultimamente ci siamo occupati anche di giardini verticali e persino di farmaci. Il settore con il quale abbiamo iniziato, e che è ancora oggi il nostro principale campo d’azione, è il vitivinicolo. Per qualche motivo, gli operatori in questo settore arrivano sempre prima degli altri; sembrano avere un innato spirito pionieristico, come è stato ad esempio nel caso delle denominazioni d’origine o del biologico e biodinamico.
Rispetto alla realtà internazionale, l’Italia come si posiziona secondo voi su questo tipo di pratiche?
La nostra diffusa collaborazione con aziende vitivinicole è sicuramente anche dovuta alla dimensione internazionale del loro mercato. Non è insolito che gli importatori nordamericani o nordeuropei richiedano ai produttori informazioni sulla sostenibilità della loro filiera, facendo richiesta ad esempio della Carbon Footprint oppure del Carbon Footprint Offset, ovvero quanta parte delle emissioni di gas serra che sono generate durante la produzione sia effettivamente compensata con gli assorbimenti di CO2 operati dai boschi e dagli altri ecosistemi presenti in azienda. Riuscire a dimostrare che l’azienda ha attivato un sistema di monitoraggio delle proprie emissioni è indice di una gestione attenta e responsabile. Al momento, i mercati esteri sono più sensibili di quanto non si riscontri in Italia. A volte, aziende che hanno un mercato esclusivamente italiano, non sanno di cosa parliamo. Ci piace pensare però che questa attenzione finirà presto per diffondersi anche nel nostro Paese.
La Fattoria La Maliosa, è stata la prima azienda certificata biodinamica che avete valutato in Italia?
La Maliosa è stata la nostra prima biodinamica. Il bello del nostro lavoro è che ci mette di fronte a realtà molto diverse e c’è sempre molto da imparare. Antonella e Lorenzo, che si occupano dell’azienda, ci mettono l’anima. La loro è una scelta etica che è premiata dalla qualità del vino, dell’olio e del miele che producono. Rispetto al loro “saper fare” non avevamo nulla da eccepire. Semmai, in questo caso, Indaco ha portato un contributo nel “far sapere” all’esterno quali vantaggi si potessero effettivamente riscontrare, numeri alla mano, dal loro operato.
Il confronto con le aziende agricole di stampo convenzionale ha portato a delle osservazioni particolari?
I risultati che abbiamo ottenuto per le filiere di vino, olio e miele de La Maliosa sono eclatanti. L’uso limitato di macchinari e quindi il consumo di combustibili, l’utilizzo ridotto di prodotti in vigna, la generazione di elettricità da fotovoltaico, il packaging contenuto, sono tutte pratiche che limitano le emissioni di gas serra (e tutte le altre categorie di impatto analizzate) a livelli minimi. Inoltre, i boschi e gli erbai dell’azienda assorbono una quantità di CO2 che è cento volte quella emessa per la conduzione dell’azienda. Comunque non è sempre vero che l’etichetta biologica comporti un risultato migliore rispetto ad una convenzionale. Tutto dipende dalle scelte del produttore più che dai disciplinari. Spesso riscontriamo una notevole attenzione anche da parte delle aziende più grandi. Ci piace pensare che il nostro approccio tende ad essere super partes. Non sappiamo a priori dove andremo a parare e a volte abbiamo piacevoli sorprese (o anche spiacevoli) che ribaltano i pronostici.
Nelle vostre valutazioni ci sono sempre le indicazioni per migliorare i risultati che avete registrato: Dopo quanto tempo consigliate la successiva valutazione?
Auspicabilmente, il monitoraggio può essere biennale ma non c’è una regola, ad eccezione di prodotti certificati per i quali il rinnovo è obbligatorio ogni due anni. La valutazione è da aggiornare tutte le volte che vengono apportati dei cambiamenti al processo produttivo (e.g. rinnovo di macchinari, efficientamento di alcune pratiche, cambi del packaging)
Parliamo di prodotti, le vostre analisi confermano che le vocazioni territoriali sono quelle che portano un vantaggio a livello ambientale?
Lo abbiamo visto anche in un lavoro con i Presidi Slow Food nel settore dell’allevamento e prodotti caseari. Finora, abbiamo riscontrato in tutti i casi che le produzioni tradizionali estensive hanno impatti decisamente più bassi di altre produzioni analoghe di tipo convenzionale industriale.
Avere i vostri dati alla mano credete che possa portare a delle scelte più consapevoli sia del produttore che del consumatore? E in che modo?
Monitorare la sostenibilità delle produzioni e, possibilmente, rendere questa informazione chiara e facilmente comprensibile agli occhi di produttori e consumatori è molto importante. Ad esempio, questa informazione è utile per capire come le nostre abitudini alimentari individuali possano incidere anche sull’ambiente. È bene capire che ogni volta che consumiamo (o peggio sprechiamo) cibo, la nostra azione ha delle implicazioni ambientali che dipendono dalla filiera di ogni produzione. Inoltre, adesso sappiamo che scegliere prodotti tipici di qualità, generalmente, è un bene non solo per la salute e il gusto, ma anche per l’ambiente e il territorio.